Avevo letto decine di articoli, libri, visto documentari e approfondimenti, ma dopo un solo giorno passato sulla rotta Giacobea capii che Il Cammino di Santiago non si può raccontare, si deve vivere. Quell’anno avevo viaggiato molto. Prima in Kenya in inverno, poi a Malta in estate con gli amici. A ottobre, raccogliendo l’invito della mia diocesi, decisi di partire con 40 giovani miei coetanei che non conoscevo. Un’esperienza diversa, controcorrente rispetto al mio modo di essere, che però volevo fare a tutti i costi. Sapevo che non sarebbe stata una passeggiata, eppure avevo dentro un’adrenalina incredibile. Una forza che mi diceva di andare e vivere quest’esperienza. I giorni prima della partenza preparai lo zaino con cura, pesando ogni indumento e scegliendo con attenzione scarponi e antidolorifici. Io che prima di un viaggio penso sempre a macchina fotografica, occhiali da sole e qualche libro, mi ritrovavo a fare i conti con uno scomodo zaino da trekking che dovevo tenere sulle spalle per una settimana. Il giorno della partenza, il primo ottobre, conobbi tutti i partecipanti. A parte Gabriele, mio compaesano e oggi sacerdote, gli altri erano per me dei perfetti sconosciuti. Alla guida del gruppo c’era don Roberto, responsabile della pastorale giovanile, che dava raccomandazione e invitava tutti a fraternizzare. Dopo l’arrivo a Porto (Portogallo), in pullman arrivammo a Sarrìà a circa 130 chilometri da Santiago…una passeggiata. Un albergo a 4 stelle, una cena discreta e ogni tipo di confort, ma era solo per un giorno. L’indomani, infatti, iniziò il cammino e tutto ciò sparì. Partimmo dopo una preghiera comune e qualche canto. Zaino in spalla, scarponi ai piedi e un bastone simbolo del cammino in mano. Il sorriso e l’entusiasmo sul mio volto si spensero dopo pochi chilometri davanti a una salita ripidissima immersa in un bosco incantevole. Già a metà giornata dolori, fatica e stanchezza presero il sopravvento e arrivare all’ostello dove dovevamo trascorrere la prima notte fu un’impresa eroica. Continuavo a ripetere che non ce la facevo, ma la mia forza di andare avanti mi spingeva a fare piccoli passi verso la prima meta. I miei compagni di viaggio mi aiutavano e mi incoraggiavano. Passai la notte dolorante, immobilizzata nel letto con dubbi e paure. La mattina presi un antidolorifico andando contro ogni mio principio, un Cola – Cao caldo e due fette di pane con marmellata. Affidai lo zaino a un transfer che per soli 3 euro lo portava alla tappa successiva e partii. Da quel giorno la grinta si trasformò in forza. Insieme ai miei nuovi amici solcai colline, viali agresti, stradine di piccoli borghi e marciapiedi cittadini. Il rituale era sempre lo stesso: sveglia presto, preghiera, colazione e partenza. Sosta a metà mattino, pranzo dopo un paio d’ore e poi arrivo in uno ostello dove trascorrere la notte, messa, cena e riposo. Andavo avanti senza pensare ai dolori, ai disagi, alle condizioni difficili in cui mi trovavo. Condividevo la stanza anche con 80 persone, mi ritrovavo a disinfettare i miei piedi pieni di ferite, ma poi sorridevo quando al lato della strada vedevo le colonnine che indicavano la distanza da Santiago che si avvicinava giorno dopo giorno. È stato un viaggio contro me stessa e dentro me stessa. Un viaggio in cui ho dovuto fare i conti con paure, dubbi, incertezze, tante e tante difficoltà. Come dimenticare la giornata trascorsa sotto la pioggia con 27 chilometri da affrontare e un dolore alla schiena che mi toglieva il respiro. E poi mai avrei immaginato di dover dormire in un ostello con così tante persone, bucare le vesciche ai piedi, o mangiare per 7 giorni di seguito pane e Jambon che però in quel momento mi sembrava il pranzo più buono del mondo. Non avrei neanche immaginato di camminare per ore con un mio compaesano di cui sapevo poco e trovarci a parlare della vita degli anziani del nostro paese, delle tradizioni scomparse e di quelle da tutelare. Come dimenticare poi gli incantevoli scenari, la frutta colta dagli alberi, i canti a squarciagola per non pensare ai chilometri di affrontare e la gioia di arrivare a Monte do Gozo e capire che il viaggio, anche se lungo, duro e difficile, era finito. Quando arrivai nella grande piazza davanti alla cattedrale di Santiago mi misi in fila per poter entrare e guardai quella scena da spettatrice e non da protagonista. Avevo alle spalle 130 chilometri, tante esperienze, tanti dolori e tanti insegnamenti. Fu in quel momento che capii che il cammino di Santiago mi aveva lasciato tante cicatrici, ma allo stesso tempo mi aveva dato tanta forza e mi aveva fatto scoprire un po’ di più Eleonora. Un viaggio nel cuore e nella mente, che non dimenticherò mai. 😉
Santiago de Compostela, il cammino nell’animo tra gioie e dolori
9 Giugno 2015